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Ben ritrovati, 

Questa settimana vi racconto tre storie. La prima arriva dall'Afghanistan e l'ha scritta (e fotografata) una bravissima reporter, Lynzy Billing. Parla di poesia, religione, e di un Paese che soffre e lotta. E lo fa proprio mentre le truppe internazionali si apprestano al ritiro, dopo venti anni di guerra, lasciando dietro le loro spalle una terra sfiancata e ferita. La seconda storia invece viene dal Nagorno Karabakh e ha come protagonisti il  vino e la guerra.

Di seguito vi segnalo due mostre.  Una è in corso a Parigi ed è dedicata alle dive del mondo arabo. La seconda l'hanno organizzata due amici cari a Lecce ed espone le vignette di Amany Al-Ali, una cartoonist siriana di cui ho raccontato qualche tempo fa qui.  

Vi lascio infine con due aggiornamenti. Il primo è sul nord dell'Iraq. Qualche tempo fa vi avevo parlato delle donne yazide sfollate nel nord dell'Iraq. Ecco, settimana scorsa, come se non bastasse tutto il dolore che hanno patito, buona parte delle tende del campo di Sharia, nella provincia di Duhok, dove vive la minoranza yazida, è andato a fuoco. In pochi secondi oltre 400 tende hanno preso fuoco. Sono incidenti che accadono ahimè di sovente nei campi, spesso causati dalle bombole che si usano per cucinare o dalla rabbia di chi vive in condizioni in cui nessun essere umano dovrebbe vivere.
 «Il fuoco ci ha ricordato cosa è successo nel 2014 quando l'Isis ha occupato Sinjar. A quel tempo, abbiamo raccolto i nostri documenti e tutti i nostri oggetti personali e siamo scappati, portando con noi le nostre cose. Ora abbiamo dovuto fare lo stesso e la paura rimane nei nostri cuori», ha raccontato un testimone. Il secondo aggiornamento riguarda Muna al Kurd, la giovane attivista che vive e lotta per Sheik Jarrah, il quartiere di Gerusalemme al centro di una contesa giudiziaria tra palestinesi e israeliani, di cui vi ho raccontato qualche tempo fa. Lei e il suo fratello gemello Mohammed sono stati arrestati settimana scorsa dalle autorità israeliane ma una campagna social lanciata a tempo di record ha permesso loro di tornare in libertà dopo poche ore. Una buona notizia che rende però altrettanto l'idea di quanto resti alta la tensione in Israele, nei Territori e a Gaza. 

Buona tazza di the, con la speranza di ritrovarsi presto.
Di poesia, amore e religione 
 

 

Da un lungo racconto della fotoreporter afghana Lynzy Billing, pubblicato su Al Jazeera, si scoprono molte cose a proposito di poesia, sufismo e amore.

In qualche modo le lettere, la religione e la filosofia si sono sempre fuse nel corso della storia, ognuna con il suo racconto dell'anima degli esseri umani. E questo articolo di Lynzy fa riflettere proprio su questo, credo.

Come ingredienti di un'antica miscela, diverse visioni del mondo si sono mescolate in una biblioteca di Kabul, nonostante tutto intorno la guerra e il dolore cerchino di mangiarsi ogni speranza. Lynzy racconta del poeta 81enne Ghulam Haidar Haidari Wujodi, da poco portato via dal Covid, che lei ha incontrato l'ultima volta un anno fa a Kabul.  Nel mondo dell'arte e della cultura, Wujodi è molto conosciuto e rispettato per la sua scrittura e per le sue poesie. Il suo lavoro include insegnamenti della mistica sufi, ma ha anche affrontato argomenti tabù, come lussuria e amore al di fuori del matrimonio. 

Il sufismo è una forma mistica dell'Islam, che fa parte del tessuto dell'Afghanistan quasi quanto l'Islam stesso. Molti afghani rispettano i sufi per il loro apprendimento e credono che il "karamat" - il potere spirituale degli anziani - permetta di compiere atti di generosità e di elargire benedizioni.

L'Afghanistan ha ospitato saggi e studiosi sufi che hanno dato contributi significativi alla letteratura islamica. È anche il luogo di nascita di diversi ordini sufi. Per più di 1.000 anni, molte delle sue città sono diventate tra i centri più importanti del sufismo. Queste comunità mistiche sono sopravvissute agli sconvolgimenti dell'ultimo mezzo secolo e oggi il sufismo vive in tutto l'Afghanistan – tra le altre persone, negli studenti che si stringono intorno al loro insegnante dopo ore di camminano per arrivate nella città di Herat, i loro canti ritmici che echeggiano nei corridoi della loro scuola, e in un gruppo di donne che si riunisce in un buio bar seminterrato di Kabul per discutere di poesie sufi davanti a tè e narghilè.

Le pratiche sufi enfatizzano la ricerca interiore di Dio. La poesia del sufismo, scritta principalmente in persiano, è composta su temi mistici islamici. La prima poesia sufi generalmente consisteva in brevi lamenti ascetici sulla condizione umana. Oggi alcuni, come ha deciso di fare anche Wujodi, abbracciano le idee e il linguaggio dell'amore.

Ma non solo. La poesia permette anche di capire altre cose, decisamente più terrene. Per comprendere, ad esempio, perché uomini e donne vivono separati nella società afghana, in particolare nei contesti rurali, bisogna tornare al principio. Secondo Wujodi, uomini e donne sono di base diversi nel modo in cui si relazionano alle proprie emozioni e nel modo in cui le esprimono. 

 «Le principali qualità delle donne afghane sono la sofferenza, l'accettazione e la pazienza», ha spiegato Wujodi a Lynzy. Tali valori sono scolpiti nella pietra delle usanze tribali da migliaia di anni e creano un contesto in cui le donne, che hanno voce limitata nella sfera pubblica, esprimendo pubblicamente la loro sofferenza e il proprio dolore emotivo ottengono il riconoscimento la comprensione tra le loro coetanee

Un noto proverbio pashtun recita: «Una donna nasce con dolore, si sposa con dolore e morirà con dolore» .

Per gli uomini, vale l'opposto. L'onore maschile è incentrato sull'abilità e sulla resistenza al dolore senza mostrarlo, il che ha a che fare con il concetto di nartob o «virilità» che include orgoglio, coraggio, forza, impavidità e assertività. «Per gli uomini pashtun, manifestare in pubblico le proprie emozioni, come tristezza, paura, gelosia o tenerezza, è considerata un segno di debolezza e dimostra una mancanza di autocontrollo», ha spiegato Wujodi. 

Un esempio? Una poesia che Wujodi ha letto a Lynzy che, tradotta, suona più o meno così. 

«Se è tua speranza di non vergognarti mai davanti a nessuno.

È meglio tenere nel cuore anche la minima relazione...

Lascia che il tuo cuore sanguini dentro di sé, se deve sanguinare.

Ma tieni ben nascosti i tuoi segreti al nemico e all'amico».

Sono le parole del poeta guerriero pashtun del XVII secolo Khushal Khan Khattak, che illustrano le caratteristiche tradizionalmente chiave di ciò che significa essere un uomo pashtun.

Oggi, tali valori continuano a prevalere nella società afghana, ma Wujodi afferma che sono emerse anche nuove qualità in entrambi i sessi, che stanno diventando intercambiabili e che la società afghana si sta adeguando. «La poesia sta cambiando, il verso degli uomini e il verso delle donne stanno entrambi cambiando, entrambi condividono pubblicamente le loro voci negli spazi insieme e la società nel suo insieme sta trovando il proprio percorso per soddisfare questi cambiamenti».

Nella foto una donna nella biblioteca di Kabul
(Lynzy Billing/Al Jazeera)


 
Vino in guerra

 

Questa seconda storia l'hanno raccontata il giornalista freelance Karlos Zurutuza e il fotografo freelance Gilad Sade su Newlines magazine. 

A Yerevan, la capitale dell'Armenia, in una pittoresca strada alberata chiamata Saryan si trova l'enoteca In Vino, una rarità  da queste parti, dove il vino è un considerato un bene di lusso. «Il posto ti accoglie con un'atmosfera da campagna con accoglienti mobili da cabina e scaffali in rovere che sembrano pronti a piegarsi sotto il peso di migliaia di bottiglie di vino. Manca solo una cosa: i clienti», scrivono i due autori.

«È la pandemia, sai? Non possiamo più offrire degustazioni di vino e la gente preferisce ubriacarsi a casa in questi giorni», ha spiegato Maryam Saghatelyan, proprietaria di In Vino, che ha circa 30 anni. Maryam ha aperto l'enoteca nel 2012 e presto questa è diventata un punto di riferimento tra gli abitanti delle città, gli expat e i turisti. 

Tra le etichette che Maryam offre, c'è n'è una sempre più rara. E' un vino che si chiama Kataro. 

Per capire la storia di questa bottiglia bisogna tornare indietro nel tempo. A novembre del 2020, l'Azerbaigian ha ripreso il controllo della regione del Nagorno-Karabakh in un accordo di pace mediato dalla Russia. Il conflitto asimmetrico tra l'esercito armeno e la schiacciante potenza aerea dell'Azerbaigian è durato solo sei settimane, e le sue radici risalgono all'epoca di Gorbaciov. In epoca sovietica dalla fine degli anni '80 al maggio 1994, gli armeni hanno ottenuto grazie a Mosca il controllo dell'enclave e dei suoi sette distretti adiacenti. All'epoca  700.000 azeri si spostarono dal Nagorno-Karabakh nei territori circostanti. E sotto le ceneri, quel conflitto ha sempre covato mettendo fine ad una pacifica convivenza tra i due popoli, fino a riesplodere, prima nel 1994 e poi l'anno scorso. 

In epoca sovietica, nella regione c'era solo una fabbrica di vino di proprietà statale ad Askeran, situata vicino alla città più grande dell'enclave, Stepanakert. Caduta in rovina negli anni '90 durante la guerra, in seguito fu ricostruita come impianto di produzione per la Artsakh Brandy Company. Negli anni successivi iniziarono a germogliare altri vigneti, uno dei quali Kataro, che nel 2010 divenne leader tra le 15 aziende vinicole dell'allora non riconosciuta repubblica. I suoi proprietari, gli Avetissyan, una nota famiglia che opera nel settore vinicolo nella regione di Hadrut dagli anni '20, hanno chiamato la loro etichetta in onore dell'abbazia di Kataro, situata in cima a una collina vicina.

Nella primavera del 2016, Grigori Avetissyan ha ampliato l'azienda di famiglia con un secondo vigneto. Il progetto era stato incoraggiato dal ministero della Cultura del Karabakh, che gli chiedeva di istituire un'associazione di produttori di vino e promuovere una produzione intensiva e di qualità di vino.  «È prodotto solo in Karabakh, non in Armenia o nel resto dell'Azerbaigian», ha raccontato Avetissyan ai due giornalisti durante un'intervista nel suo vigneto nel maggio 2019.

All'epoca il Kataro veniva esportato in Russia, in Canada e negli Stati Uniti, con la dicitura «made in Armenia». Poi è arrivato il 2020. Il paradosso è che  insieme alla pandemia e alla guerra l'anno scorso abbia regalato all'enclave condizioni climatiche perfette per una grande annata. Così le ultime bottiglie di Kataro imbottigliate a Togh, un villaggio nascosto tra spettacolari catene montuose, foreste vergini e molti vigneti, sono forse tra le migliori che l'etichetta ricordi. 

Per il momento, le possibilità per un qualsiasi armeno di rimettere piede a Togh nel prossimo futuro sembrano improbabili, data la sconfitta sul campo militare. Ma per Avetissyan, che ha perso la sua attività e non ha altri mezzi di sostegno finanziario, questo non è un buon motivo per rinunciare alla speranza. 

Un giorno, promette, la sua vigna e il Nagorno-Karabakh torneranno come «parte integrante della madrepatria armena».


Nella foto Maryam Saghatelyan con una bottiglia di Kataro
(Gilad Sade/Newsline Magazine)  

Due mostre
La prima mostra è Arab Divas in cartellone fino al 26 settembre all'Institut du Monde Arabe a Parigi. Attraverso registrazioni, oggetti e cimeli, le  magnifiche voci di Umm Kulthum, Dalida, Sabah, Fayrouz e Warda ritornano a vibrare. La mostra si sviluppa su 1.000 metri quadrati ed è composta da centinaia di pezzi da collezione inediti, suddivisi in quattro parti principali. La prima è dedicata alle dive degli anni '20; donne visionarie e lungimiranti. Questa sezione della mostra riporta il visitatore nelle strade del Cairo, all'epoca era il centro della cultura del mondo arabo. La capitale egiziana ha attirato artisti da tutto il Medio Oriente, tra cui Rose Al-Yussef (il cui vero nome era Fatma). Nata in Libano, è diventata una figura emblematica dei media e del teatro egiziani negli anni tra le due guerre e ha fondato la famosa rivista culturale e politica Rose al-Yussef. Badia Massabni è stato un altro personaggio estremamente significativo dello stesso periodo. Ha aperto i primi cabaret ad Alessandria e al Cairo e ha formato i più grandi ballerini del mondo arabo. Poi Munira El-Mahdeya, maestra di tarab – l'estetica al centro della tradizione artistica araba – e  prima donna musulmana ad esibirsi sul palco, nella produzione teatrale “Saladin”.

La mostra offre ai visitatori la possibilità di "visitare" alcuni dei loro camerini. Colmo di costumi e cimeli, il primo appartiene alla più grande diva araba di tutte, l'icona egiziana Umm Kulthum. Di sottofondo, la sua voce. 

Il  successivo appartiene alla cantante algerina Warda. Poi la leggendaria Asmahan, la cui storia di principessa e spia drusa è commemorata in poche immagini e registrazioni video. E infine Fayrouz, la più grande diva araba vivente con cui i visitatori possono conoscere meglio attraverso immagini, poster e altri cimeli prestati da devoti collezionisti d'arte. 

La seconda mostra invece è in cartellone a Lecce fino a
 domenica 25 luglio nelle sale al primo piano del Convitto Palmieri. “Vita su una gamba sola. 10 anni di guerra in Siria” di Amany al-Ali. Nelle trentuno illustrazioni digitali questa trentasettenne artista e vignettista siriana racconta dieci anni di vita a Idlib nel nord del Paese, in una regione particolarmente colpita dai raid del regime di Bashar al-Assad e nel mirino delle milizie estremiste. «Ogni disegno parla di un aspetto diverso della vita che è cambiato. Ogni disegno racconta un dettaglio che voglio comunicare al pubblico. Le case si sono trasformate in campi profughi, l’istruzione si è persa, la morte è dappertutto, l’amore e la musica sono stati colpiti e messi a tacere», racconta Amany. Nel percorso di visita è presente, inoltre, una sezione speciale, dedicata alla figura della donna, composta daquattro illustrazioni, definite dalla stessa artista «di ispirazione espressionista». Il “paesaggio sonoro” è stato affidato a Marc Codsi, compositore, chitarrista, polistrumentista e produttore, tra i principali fautori del rinnovamento della scena musicale contemporanea libanese e mediorientale. La mostra è accompagnata da un catalogo in tre lingue (italiano, inglese e arabo). 


 

L'ombra del nemico 
 
Ed eccola qui la mia creatura.  E' edita da Solferino libri e la potete acquistare nelle librerie o su Amazon. Alla fine del 2019 muore in un attentato Al Baghdadi, leader del più pericoloso gruppo terroristico al mondo. Ma chi è stato davvero, chi lo ha tradito? E davvero la sua morte ci ha messo al sicuro? Sono partita da queste per ricostruire la parabola dell’Isis negli ultimi dieci anni e lo fa in un viaggio nella storia dall’Europa al Medio Oriente e ritorno. Per capire come ha cambiato le nostre vite dalla sua nascita a oggi a partire dalla tragedia della guerra in Iraq e Siria e passando per i più gravi attentati in Europa, le violenze sulle donne curde, la caduta di Mosul e i molti grandi e piccoli eventi che hanno segnato la storia della guerra al terrore di questi anni. 
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