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Ben ritrovati, 

Sono stata via per un po', ho viaggiato sia con la mente che con il corpo. Ho navigato in acque tempestose sicuramente ma anche interessanti. E mentre svuoto il borsone, recupero un po' di forze, rileggo il diario di viaggio e sistema le cose qui nel mio porto sicuro, inizio a raccontarvi due storie che ho raccolto lungo la strada. 

Arrivano entrambe dall'Afghanistan, paese che sta affrontando un delicato momento di passaggio mentre le truppe straniere si stanno ritirando ei talebani avanzano.

La prima storia arriva da Herat e parla di un colore, il blu, lo stesso della Grande Moschea e di un uomo che custodisce quel blu e che ha deciso di regalarmene un pezzetto. La seconda invece è la storia di una teiera che ho trovato in un bric-à-brac di Kabul a Chicken Street e parla di desideri che spero si avverino. Ma soprattutto parla dell'importanza che diamo alle cose. 

Infine vi lascio un consiglio di lettura, con un libro di poesie di un'amica e brava giornalista che racconta la Siria meglio di chiunque altro, perché la conosce e la ama. 


Buona tazza del (rigorosamente freddo), con la speranza di ritrovarsi presto.
Il mosaicista di Herat
 

 

«Vivo qui da sempre ma ora non so se riuscirò a rimanere, forse dovrò andarmene perché qui non riesco più a dare da mangiare ai miei figli». Sulla spianata della Gran Moschea di Herat il muezzin chiama per la preghiera, mentre busso alla porta del custode. Tutto intorno, il sole fortissimo di mezzogiorno fa brillare le maioliche blu sui minareti mentre l'azzurro del cielo si fonde con i mosaici. 

«Dicono che vogliono trasformare questo posto nel nuovo Taj Mahal ma qui sta cadendo tutto a pezzi». Ahmed ha 45 anni, lavora alla manutenzione dei mosaici della Gran Moschea da sempre, suo padre aveva lo stesso impiego prima di lui. Guadagna 3 dollari alla settimana. 


La Masjid-i Jāmiʿ di Herat  fu costruita sul sito di due piccoli templi di fuoco zoroastriani distrutti dal terremoto e dal fuoco. Nel 1221, Gengis Khan conquistò la provincia, e insieme a gran parte di Herat, il piccolo edificio cadde in rovina. Fu solo dopo il 1245, sotto Shams al-Dīn Muhammad Kart che tutti i programmi di ricostruzione furono intrapresi.  Tuttavia, un devastante terremoto del 1364 lasciò l'edificio quasi completamente distrutto, anche se si tentò di ricostruirlo. Ma poi, nel secolo successivo, la sostituzione della piccola moschea in rovina fu realizzata con la costruzione di un edificio completamente nuovo con giardini circostanti, che fu completato da Jalāl al-Dīn Fīrūzshāh, uno dei più eminenti emiri di Shah Rukh.  

Le decorazioni da sole impiegarono più di cinque anni per essere completate, poiché l'emiro portò lavoratori da tutto l'impero. La moschea fu successivamente restaurata definitivamente sotto l'impero Mughal, quando il principe Khurrām stava combattendo per il controllo della regione contro le tribù uzbeke.

Lo scrittore e viaggiatore inglese Robert Byron ne La via per l'Oxiana descriveva la Moschea blu così: «Attraversati i bui labirinti della città vecchia, mi sono trovato in una corte lastricata di circa cento metri per sessantacinque. Quattro iwān, che sono degli ambienti a volta aperti sul lato frontale, interrompono i portici lungo i lati. L'iwān occidentale, il più importante, è fiancheggiato da due torri massicce sormontate da cupole azzurre. Queste ultime, insieme a un pino mediterraneo dal tronco inclinato che sorge in un angolo, sono le uniche note di colore nel complesso dominato dal bianco della calce e dai mattoni sbrecciati, con qualche frammento di mosaico. Una vasca quadrata riflette un mullah e i suoi alunni che stanno passando, tutti vestiti di bianco. Il silenzio e la luce solare trasmettono pace al lastricato consunto».

Oggi la Moschea Blu è l'edificio religioso più importante della città. E se fino a qualche tempo fa era meta di turisti e curiosi, ora che i venti di guerra soffiano sempre più forti, quasi nessuno si spinge da queste parti. 

Ahmed fa strada tra le stanze riservate ai mosaicisti. Si ferma davanti a un vecchio forno costruito in argilla, da un foro nel soffitto filtra la luce del sole. «Cuociamo le tessere dei mosaici secondo la vecchia tradizione. E il nostro compito è di sostituire quelle che si staccano. Ti assicuro, il lavoro non manca». Ahmed ha quattro figli. «Vorrei che andassero all'università a Kabul, che avessero un futuro più solido del mio e che la loro vita non fosse come quella di questi mosaici così fragili ma ora che le cose stanno cambiando non credo che restare in questo paese sia una buona idea». 



A pochi chilometri di distanza i talebani stanno avanzando, mentre il contingente italiano ha abbandonato la base di Camp Arena agli inizi di giugno. «Eravamo contenti che foste qui. Anche il vostro ospedale era un punto di riferimento: era un buon posto dove andare, curavano sempre tutti senza chiedere soldi», continua a raccontare Ahmed.

Poi mi mette nella mano una delle tessere di mosaico che ha appena realizzato. Un fiore di terracotta, con i petali blu e gialli, con i colori che brillano sulla facciata. Lo stringo forte.  «Ora qui non c'è rimasto più nessuno a proteggerci, spero che questo regalo possa proteggere te».

Quel fiore è uno dei regali più preziosi che io abbia mai ricevuto.  

La teiera di Kabul 

A Kabul c'è un detto: le cose a buon mercato portano grane, quelle costose richiedono un grande sforzo. Riflettevo su questo proverbio in un pomeriggio di sabato mentre camminavo su Chicken Street. E pensavo come sia vero che, al di là del discorso economico, le cose troppo facili, ottenute senza particolare fatica siano fragili. E che sono invece quelle che derivano dall'impegno, la sofferenza e la dedizione a darci e lasciarci di più. Vale con gli oggetti e le cose materiali ma vale anche con gli affetti, forse, e con le conquiste personali. Comunque mentre passeggiavo alla ricerca di regali da portare a casa, un bric-a-brac ha attirato la mia attenzione e così sono entrata. In uno stanzino di pochi metri quadrati era stipato di tutto: suppellettili, monili, scatole, vecchie fotografie, vecchi fucili, coltelli. Tutto assolutamente buttato alla rinfusa. Dall'oscurità si è fatto avanti il proprietario. «Cosa sta cercando?». 

Di fronte a quella domanda sono entrata decisamente in crisi. Poi mi sono ricordata di Sherazade, ho pensato che era tanto non raccontavo più storie e ho detto sicura: «Una teiera!». Ecco cosa mi serviva. L'uomo mi ha sorriso di rimando e mi ha mostrato una piccola vetrinetta in cui stava rinchiuso il paradiso delle teiere antiche. «Devi sceglierne una». Ho iniziato a guardarle una per una. Erano perfette. Le avrei volute tutte. Ma poi non sarebbe più stata la mia teiera. Così ho cercato di concentrarmi. E ho preso in mano questa che vedete nella foto.

«Ottima scelta», ha commentato il proprietario del bric-a-brac. «Non è preziosa: ma è una teiera affidabile, di quelle che non ti deludono e non ti abbandonano mai. Inoltre per trovarla hai dovuto fare tanta strada». Ho ripensato al detto è in effetti non ho potuto dargli torto: di fatica e di chilometri per arrivare in quel negozietto buio ne avevo fatta parecchia.  

Non so se sia antica davvero come mi hanno detto, ma non importa. Ci siamo guardate e siamo diventate amiche. E ho pensato che potrebbe essere un po' la mia lampada di Aladino. L'ho messa su uno scaffale vicino al barattolo rosso di Sherazada. Ogni tanto la strofino con un panno blu. Ufficialmente è per lucidarla. In realtà è perché ogni volta che ci passo di fianco mi faccio la stessa domanda che mi ha fatto quell'uomo. «Cosa sto cercando?». E cerco ogni giorno di darmi una risposta. 

Il mare di Aleppo




Asmae Dachan è forse la giornalista in Italia che più e meglio ha raccontato in questi anni la sofferenza del suo Paese. Ora, con questa antologia di poesie, Asmae affronta il tema della lontananza e del conflitto attraverso uno strumento più intimo, la poesia. 

Scrive Silvia Moresi nell'introduzione di Non c'è il mare ad Aleppo (editore l'Erudita).
« Dachan narra, in italiano, quei temi diventati una costante nella letteratura siriana contemporanea: le paure, la morte, le torture e le prigioni. Sono molti, infatti, gli scrittori ei poeti, come Mustafa Khalifa e Faraj Bayraqdar, che hanno “abitato” le stretto celle delle carceri siriane, luoghi fatti apposta per disumanizzare l'individuo, luoghi cui da ci si “cura” solo con la scrittura » .

Anche per l'autrice, che non ha provato in prima persona la crudeltà della guerra, ma è stata testimone – come giornalista – della sofferenza del popolo siriano, la poesia diventa una terapia, l'unico modo per provare a placare le ansie e gli incubi che appesantiscono il cuore e l'anima. 

Asmae Dachan, giornalista professionista e scrittrice italo-siriana, è esperta di Medio Oriente, Siria, Islam, dialogo interreligioso, immigrazione e terrorismo internazionale, iscritta all'Ordine dei Giornalisti delle Marche dal 2010 lavora come freelance per diverse testate nazionali e internazionali, tra cui Avvenire, Confronti, Panorama, L'Espresso, Altreconomia, Venerdì di Repubblica, The Post Internazionale e Senza Filtro. Responsabile Ufficio Stampa Fondazione Lavoroperlapersona. Ho operato in Italia, Turchia, Siria, Grecia, Giordania, Inghilterra, Belgio ed Etiopia. È creatrice e autrice del blog Diario di Siria – “Scrivere per riscoprire il valore della vita umana”.

 


 

L'ombra del nemico 
 
Ed eccola qui la mia creatura.  E' edita da Solferino libri e la potete acquistare nelle librerie o su Amazon. Alla fine del 2019 muore in un attentato Al Baghdadi, leader del più pericoloso gruppo terroristico al mondo. Ma chi è stato davvero, chi lo ha tradito? E davvero la sua morte ci ha messo al sicuro? Sono partita da queste per ricostruire la parabola dell’Isis negli ultimi dieci anni e lo fa in un viaggio nella storia dall’Europa al Medio Oriente e ritorno. Per capire come ha cambiato le nostre vite dalla sua nascita a oggi a partire dalla tragedia della guerra in Iraq e Siria e passando per i più gravi attentati in Europa, le violenze sulle donne curde, la caduta di Mosul e i molti grandi e piccoli eventi che hanno segnato la storia della guerra al terrore di questi anni. 
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