«Vivo qui da sempre ma ora non so se riuscirò a rimanere, forse dovrò andarmene perché qui non riesco più a dare da mangiare ai miei figli». Sulla spianata della Gran Moschea di Herat il muezzin chiama per la preghiera, mentre busso alla porta del custode. Tutto intorno, il sole fortissimo di mezzogiorno fa brillare le maioliche blu sui minareti mentre l'azzurro del cielo si fonde con i mosaici.
«Dicono che vogliono trasformare questo posto nel nuovo Taj Mahal ma qui sta cadendo tutto a pezzi». Ahmed ha 45 anni, lavora alla manutenzione dei mosaici della Gran Moschea da sempre, suo padre aveva lo stesso impiego prima di lui. Guadagna 3 dollari alla settimana.
La Masjid-i Jāmiʿ di Herat fu costruita sul sito di due piccoli templi di fuoco zoroastriani distrutti dal terremoto e dal fuoco. Nel 1221, Gengis Khan conquistò la provincia, e insieme a gran parte di Herat, il piccolo edificio cadde in rovina. Fu solo dopo il 1245, sotto Shams al-Dīn Muhammad Kart che tutti i programmi di ricostruzione furono intrapresi. Tuttavia, un devastante terremoto del 1364 lasciò l'edificio quasi completamente distrutto, anche se si tentò di ricostruirlo. Ma poi, nel secolo successivo, la sostituzione della piccola moschea in rovina fu realizzata con la costruzione di un edificio completamente nuovo con giardini circostanti, che fu completato da Jalāl al-Dīn Fīrūzshāh, uno dei più eminenti emiri di Shah Rukh.
Le decorazioni da sole impiegarono più di cinque anni per essere completate, poiché l'emiro portò lavoratori da tutto l'impero. La moschea fu successivamente restaurata definitivamente sotto l'impero Mughal, quando il principe Khurrām stava combattendo per il controllo della regione contro le tribù uzbeke.
Lo scrittore e viaggiatore inglese Robert Byron ne La via per l'Oxiana descriveva la Moschea blu così: «Attraversati i bui labirinti della città vecchia, mi sono trovato in una corte lastricata di circa cento metri per sessantacinque. Quattro iwān, che sono degli ambienti a volta aperti sul lato frontale, interrompono i portici lungo i lati. L'iwān occidentale, il più importante, è fiancheggiato da due torri massicce sormontate da cupole azzurre. Queste ultime, insieme a un pino mediterraneo dal tronco inclinato che sorge in un angolo, sono le uniche note di colore nel complesso dominato dal bianco della calce e dai mattoni sbrecciati, con qualche frammento di mosaico. Una vasca quadrata riflette un mullah e i suoi alunni che stanno passando, tutti vestiti di bianco. Il silenzio e la luce solare trasmettono pace al lastricato consunto».
Oggi la Moschea Blu è l'edificio religioso più importante della città. E se fino a qualche tempo fa era meta di turisti e curiosi, ora che i venti di guerra soffiano sempre più forti, quasi nessuno si spinge da queste parti.
Ahmed fa strada tra le stanze riservate ai mosaicisti. Si ferma davanti a un vecchio forno costruito in argilla, da un foro nel soffitto filtra la luce del sole. «Cuociamo le tessere dei mosaici secondo la vecchia tradizione. E il nostro compito è di sostituire quelle che si staccano. Ti assicuro, il lavoro non manca». Ahmed ha quattro figli. «Vorrei che andassero all'università a Kabul, che avessero un futuro più solido del mio e che la loro vita non fosse come quella di questi mosaici così fragili ma ora che le cose stanno cambiando non credo che restare in questo paese sia una buona idea».
A pochi chilometri di distanza i talebani stanno avanzando, mentre il contingente italiano ha abbandonato la base di Camp Arena agli inizi di giugno. «Eravamo contenti che foste qui. Anche il vostro ospedale era un punto di riferimento: era un buon posto dove andare, curavano sempre tutti senza chiedere soldi», continua a raccontare Ahmed.
Poi mi mette nella mano una delle tessere di mosaico che ha appena realizzato. Un fiore di terracotta, con i petali blu e gialli, con i colori che brillano sulla facciata. Lo stringo forte. «Ora qui non c'è rimasto più nessuno a proteggerci, spero che questo regalo possa proteggere te».
Quel fiore è uno dei regali più preziosi che io abbia mai ricevuto.
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