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Il nuovo formato giornalistico di maggior successo quest'anno nell'informazione italiana non è stato il podcast, né la newsletter, nè le storie video su questo o quel social network, né altri modi di raggiungere i lettori che sono cresciuti nel resto del mondo. Il nuovo formato giornalistico di maggior successo quest'anno nell'informazione italiana è stata la bozza: intesa nel senso di anticipazione o ipotesi sulle decisioni delle istituzioni nei confronti del coronavirus, anticipazione o ipotesi in quotidiano aggiornamento e correzione fino a raggiungere un picco di concitazione all'immediata vigilia della pubblicazione delle decisioni ufficiali, e ricominciare il ciclo pochi giorni dopo.
L'effetto controproducente sull'informazione e sulla soddisfazione del pubblico lo ha constatato due giorni fa uno stesso direttore di quotidiano - Stefano Feltri di Domani - ma neanche questo ha sottratto il suo stesso giornale al meccanismo "bozza": l'edizione di sabato si apriva infatti con le ultime ipotesi precedenti al DPCM diffuso poche ore prima, in cui si contraddicevano titolo e testo.
Il 7 marzo il Post si ritrovò spaesato nella prima occorrenza di questa situazione: per tutta la giornata - ricorderete - si rincorsero voci e previsioni sulle province che sarebbero state incluse nella prima grande zona rossa e sulle limitazioni conseguenti. Alla fine, nella notte, diverse di quelle anticipazioni sarebbero state smentite dalle decisioni ufficiali. Per attendere quelle, il Post si risolse a fine pomeriggio a spiegare sui social network che non avrebbe pubblicato niente di incerto e ingannevole prima. Fu una scelta molto apprezzata e molto ripetuta nei mesi seguenti (rischiosa, e ancora non del tutto soddisfacente). E non necessariamente la migliore: aggiornare i lettori anche sulle ipotesi e sulle discussioni in corso è un ruolo legittimo e comprensibile dei media, a patto di saper spiegare ai lettori la fragilità e parzialità di quelle ipotesi, e il loro contesto, e di aver valutato le conseguenze reali e concrete della diffusione di tali incertezze.
La maggior parte dei mezzi di informazione italiana non sembra aver fatto nessuna di queste due cose, e l'inflazione quotidiana di previsioni inesatte ha raggiunto il culmine (speriamo) nei giorni scorsi - con il concorso di una grande approssimazione e mancanza di chiarezza da parte dello stesso governo, che ha peggiorato le cose creando una rete di "soffiate" preventive provenienti direttamente da Palazzo Chigi - con la pubblicazione sui giornali persino di "FAQ" e infografiche dedicate a spiegare bene regole che ancora non esistevano (e che sarebbero poi state in parte smentite). Naturalmente anche questa scelta ha pagato: la maggior parte delle persone - malgrado l'infodemia - vuole o ha bisogno di avere aggiornamenti continui, qualsivoglia, e tutte queste ipotesi quotidiane hanno consegnato ai media tantissima attenzione, preziosa in tempi di difficoltà. È una delle tante contraddizioni di un servizio pubblico indispensabile e del suo declino economico, in cui non si sa più distinguere quale sia la causa e quale l'effetto. Il simbolo però è la bozza.
Fine di questo prologo.
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Il Washington Post progetta di arricchire la propria redazione di altre 150 persone nel 2021, superando così i mille dipendenti. Come ha fatto, coi tempi che corrono? La prima cosa da ricordare è che è una delle tre più autorevoli testate quotidiane statunitensi, insieme al New York Times e al Wall Street Journal, in un sistema in cui gli altri grandi quotidiani hanno un'identità soprattutto locale: e che questa autorevolezza ha avuto passaggi storici e divenuti noti in tutto il mondo - lo svelamento del Watergate su tutti - che hanno ricadute ancora oggi. La seconda cosa da ricordare è che il giornale è stato comprato nel 2013 da Jeff Bezos, fondatore di Amazon e uno degli uomini più ricchi del mondo: che ha messo il Washington Post nella rara e invidiata condizione di poter fare grandi investimenti in innovazione, esperimenti, tecnologia, crescita, in anni in cui per quasi tutti gli altri era molto difficile (oggi uno dei modelli di business laterali dell'azienda è la vendita delle proprie piattaforme digitali di pubblicazione e di gestione della pubblicità).
Tutto questo, e lo spazio occupato come giornale di opposizione all'amministrazione Trump, ha ridato un ruolo e delle attenzioni molto grandi al giornale negli ultimi anni, con ricadute importanti sul numero degli abbonamenti. È insomma un quotidiano che va bene, grazie a due capitali che poche testate avevano a disposizione negli anni passati: una grande credibilità e un sacco di soldi.
Se saranno confermate le 150 assunzioni, sarà il numero più grande in un solo anno della storia del Washington Post.
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Il sito Varese News è noto come uno dei casi di maggior successo di testata locale digitale in Italia: cominciarono online già nel 1997, fanno un gran lavoro di cronaca e servizio, conoscono sia le necessità tradizionali dell'informazione locale che le opportunità del digitale, e sono diventati presto per la loro città quello che altrove riescono ancora a essere quasi sempre solo le testate di carta: protagonisti e rilevanti. Lunedì scorso hanno introdotto il loro progetto di abbonamenti, che potrebbe avere risultati interessanti ed esemplari se la comunità di attenzioni e rispetto che Varese News si è costruita si traducesse in un sistema di ricavi economici.
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Il Caso Callimachi non è finito bene, per il New York Times
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Il New York Times ha concluso la sua revisione interna rispetto ai grossi dubbi dei mesi passati su un suo celebratissimo podcast e sulla sua autrice. La buona notizia è che c'è stata una revisione interna, per quanto tardiva: niente del genere sarebbe concepibile o è mai stato concepito sui quotidiani italiani, che pure le loro storie di invenzione e falsificazione le hanno avute. Quella cattiva è che il verdetto della revisione è severo: "l'inchiesta non ha trovato nessuna conferma esterna alla partecipazione di Chaudry nelle atrocità che sostiene di avere commesso nel podcast Caliphate". Un secondo articolo spiega che il podcast si è rivelato non soddisfare gli standard di accuratezza del giornale e chiama la sua pubblicazione "un fallimento", e una nota in questo senso è stata aggiunta alle pagine che ospitano il podcast. Il New York Times ha rinunciato ai premi vinti per il podcast; Callimachi si è scusata con un messaggio in cui parla di attenzioni insufficienti.
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I dati sono quelli forniti dalle testate stesse, ma il sito PressGazette ha compilato una classifica dei siti di news per numero di abbonati: classifica guidata naturalmente dal New York Times.
The New York Times, 6.063.000
The Washington Post, 3.000.000
The Wall Street Journal, 2.354.000
Gannett, 1.029.000
The Athletic, 1.000.000
Financial Times, 945.000
The Guardian, 900.000
The Economist, 795, 878
News Corp Australia, 685.200
Barron's, 458.000
Tribune Publishing Company, 427.000
The Atlantic, 400.000
The Times and Sunday Times, 337.000
Telegraph Media Group, 335.399
McClatchy, 299.000
LA Times, 257.212
Bloomberg, 250.000
New Yorker, 240.000
Boston Globe, 223.000
Insider Inc, 200.000
Wired, 142.269
National Geographic, 142.074
Dow Jones, 102.000
Minneapolis Star Tribune, 102.000
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Cosa ci vuole per far correggere una notizia falsa
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La risposta è "due anni e una querela" nel caso di una serie di articoli del Giornale contro Laura Boldrini pubblicati nel 2018, e che il Giornale ha ammesso fossero basati su un falso questa settimana. Che quelle accuse fossero inventate - e le antipatie politiche del quotidiano per Boldrini ne siano state un evidente fattore - era già stato acclarato a suo tempo, ma una formale e minacciosa querela ha infine ottenuto che il Giornale ammettesse la falsificazione, giovedì scorso. Per quanto con eufemismi come "veicolato un messaggio diverso dalla realtà" e "errata interpretazione delle fonti".
"si dava conto di un presunto abuso nell’assegnazione di un posto di favore su un volo Alitalia all’on. Laura Boldrini: precisiamo che l’informazione si è rivelata non corretta e origina da una errata interpretazione delle fonti. Non era nostra intenzione offendere l’onorabilità e la reputazione della stessa. Diamo atto della precisazioni dell’on. Boldrini e ci rammarichiamo con l’interessata e con i lettori per il fatto che i titoli e gli articoli abbiano veicolato un messaggio diverso dalla realtà".
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I risultati dei siti di news a ottobre
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Audiweb ha pubblicato i dati di traffico dei giornali online di ottobre: ricordate sempre che sono delle rilevazioni con tutti i loro margini di inesattezza, come quelle della tv o della radio; e anche che di mese in mese capitano oscillazioni cospicue attribuibili agli accidenti assai variabili del mercato dei fatti e delle notizie.
Detto questo, è significativo che il sito del Corriere della Sera abbia per la seconda volta superato quello di Repubblica, che storicamente sul web ha sempre prevalso sul suo concorrente, in termini di utenti unici. È stato un mese di crescite discrete per quasi tutti i siti maggiori, e tra i primi venti la più grande è quella del Post.
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Dal Tirreno all'Adriatico
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Si è conclusa la cessione dei quattro quotidiani locali che il gruppo GEDI (quello di Stampa e Repubblica e di molte altre testate) ha venduto alla società dell'imprenditore Alberto De Leonardis: il Tirreno di Livorno, la Gazzetta di Modena, la Gazzetta di Reggio e la Nuova Ferrara. L'editore ha nominato Stefano Tamburini direttore del Tirreno (dove aveva iniziato, alla redazione di Piombino, prima di dirigere altre testate locali) e direttore editoriale del gruppo. Qui c'è il suo editoriale di presentazione illustrato (si è notato anche come Tamburini abbia appena retwittato un duro attacco alla nuova "linea" di Repubblica).
Giacomo Bedeschi - che era al Corriere Romagna - è invece il nuovo direttore dei tre quotidiani emiliani.
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Le fortune del podcast come formato giornalistico sono state annunciate tanti anni fa senza che a lungo se ne vedesse una concretezza economica: negli ultimi due o tre anni infine le cose hanno preso una scala rilevante anche in Italia, anche se la stabilità dei modelli di business è ancora un po' incerta (qui ci sono un po' di previsioni americane per il 2021). Nei giorni scorsi è stata presentata ufficialmente - era attiva e nota già da qualche settimana - una nuova società di produzione podcast costruita dall'imprenditore Guido Brera, dal produttore televisivo Mario Gianani, dal creatore di podcast Pablo Trincia (quello di Veleno) e dall'ex direttore di Stampa e Repubblica Mario Calabresi. Si chiama Chora e il suo primo prodotto è un podcast in quattro puntate dello scrittore Paolo Giordano sulle storie del coronavirus (di cui Giordano si è molto occupato quest'anno scrivendone sul Corriere della Sera).
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Piccole cose dalla nuova Repubblica
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Il "nuovo corso" di Repubblica con la famiglia Agnelli-Elkann come editore e Maurizio Molinari come direttore non ha bisogno di altre presentazioni dopo quelle che abbiamo elencato via via negli scorsi numeri della newsletter. Quindi solo per mantenere la completezza dell'aggiornamento oggi ci limitiamo a segnalare la reazione violenta di un gruppo di giornalisti che si chiama "Senza bavaglio" alle comunicazioni del direttore di dieci giorni fa, l'ammissione - in una conversazione online venerdì col direttore del Post - del direttore stesso che Repubblica non appoggiasse nessuno dei due candidati alle elezioni presidenziali americane («Repubblica sta con l'America»), ovvero che l'ex quotidiano dei progressisti italiani abbia rinunciato a scegliere tra un candidato come Trump e uno come Biden, e la conferma di queste equidistanze contenuta nel suo recente libro Atlante del mondo che cambia.
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Nel solco della tradizione
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Un articolo di questa settimana sulla stessa Repubblica ha invece ricordato famosi precedenti di come i quotidiani "adottino" spesso comunicati stampa promozionali o sondaggi di dubbia credibilità per trasformarli in notizie a effetto con l'intenzione di attrarre curiosità morbose o preoccupate. L'articolo "Coronavirus, boom di tradimenti" citava infatti come fonte "un'indagine realizzata in esclusiva per Repubblica da Incontri- Extraconiugali.com, il primo sito in Italia creato da Alex Fantini, per persone sposate ma infedeli", e descriveva così il proprio contenuto: "il risultato, forse non scientifico al cento per cento ma certamente attendibile". La spiegazione più estesa di quale meccanismo di reciproco interesse generi questo tipo di articoli la trovate qui.
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In tutto questo, anche il Post e Charlie lavorano a modelli di ricavo che non pregiudichino la qualità dell'informazione e non lascino zone oscure tra giornalismo e pubblicità: quello su cui stiamo investendo è quello degli abbonamenti, che sta consentendo di fare insieme un progetto più grande e completo (questa newsletter non avremmo avuto le risorse per farla, prima). Se vuoi saperne di più prima di abbonarti anche tu oppure hai scoperto il Post in queste settimane intense, qui trovi spiegato cosa fa e puoi decidere se sta lavorando alla stessa cosa che vuoi tu, dall’informazione. Oppure puoi abbonarti dritto e convinto.
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Anna Wintour è di gran lunga la giornalista di Moda più famosa del mondo e della storia del giornalismo di Moda, oltre che una delle persone più potenti di tutto quanto, il mondo della Moda, per la natura del rapporto tra business della Moda e pubblicazioni. Tutto questo è sintetizzato dal suo ruolo di direttrice di Vogue dal 1988, e raccontato in modo avvincente - anche per i profani - dal documentario su di lei The September Issue (più nota è l'ispirazione di Wintour per il personaggio di Il diavolo veste Prada).
Martedì scorso Condé Nast - il grande gruppo editoriale internazionale che pubblica Vogue, Vanity Fair, Wired e il New Yorker, tra gli altri - ha nominato Wintour "Chief content officer", ovvero una sorta di supercapo di tutte le testate (salvo il New Yorker).
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Quando un giornale attribuisce a qualcuno delle parole che non ha detto, nella quasi totalità dei casi quel qualcuno lascia perdere, con minore o maggior fastidio. Quando sono cose che l'interessato ritiene molto lesive e in malafede, querela, disponendosi ad affrontarne le complicazioni. In mezzo tra le due scelte ci dovrebbe essere la possibilità di ottenere che il giornale almeno corregga l'errore (o la falsificazione) e che lo segnali ai lettori: ma nei fatti di rado avviene in modi soddisfacenti e chiari.
Il problema è che la ritrosia dei giornali a correggersi (oppure a opporre argomenti convincenti, che non siano generiche attribuzioni a fonti anonime, a sentito dire o a terzi su cui era il caso di fare verifiche) penalizza tutti i lettori, che finiscono per non avere un'informazione esatta e affidabile sulla fondatezza di quello che leggono. Un esempio - ma se ne possono fare molti, su molte testate - è stata la richiesta di rettifica inviata a Domani dal Ministro per gli Affari Europei, con un argomento piuttosto perentorio: "parole mai pronunciate". Domani ha pubblicato la richiesta senza darle alcun seguito: i lettori devono quindi immaginare che il giornale avesse in effetti citato parole inesistenti? Senza nessuna spiegazione o ammissione? La pubblicazione di una "richiesta di rettifica" nel laterale spazio delle lettere è di per sé una rettifica, per quanto elusiva?
La risposta è probabilmente appunto nella tradizionale ritrosia dei quotidiani italiani - una debolezza - ad ammettere di avere dato un'informazione falsa: risolta stavolta con un'obbligata citazione della richiesta, e finita lì (capita di peggio, spesso, eh).
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A margine della questione "parole mai pronunciate", una vecchia guida del direttore del Post su cosa sia - effettivamente - un'intervista.
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L'archivio della Stampa sopravvive
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Era a rischio, come avevamo detto qualche settimana fa, ma sono arrivati i nostri: «sarà aggiornato con le ultime versioni degli applicativi di lettura e protetto con nuovi sistemi antintrusione».
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Ehi. Buon Natale da Charlie.
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